Erano tempi in cui non si scherzava più di tanto con gli oppositori politici. Il 10 marzo 1302, la città di Firenze condannava all’esilio il suo più famoso cittadino, Dante Alighieri, con accuse infamanti quali “baratteria, lucri illeciti ed estorsioni inique”.
Fu così che il sommo poeta dovette dire addio per sempre alla sua terra, iniziando quella lunga fase di sofferenza dalla quale sarebbe nato il suo più grande capolavoro, La Divina Commedia.
Il suo antenato Cacciaguida glielo aveva profetizzato:
Lo primo tuo rifugio, il primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che’n su la scala porta il santo uccello.
Sì, Dante trovò ospitalità presso la dimora di Bartolomeo della Scala, signore di Verona, chiamato Lombardo perché col termine Lombardia s’indicava il territorio occupato dai Longobardi.
Mi ritrovo spesso nel mio camminare per la città dei Montecchi e dei Capuleti, a passare a fianco a quell’edificio dove Dante fu accolto e che presenta una facciata su piazza dei Signori che noi veronesi chiamano anche piazza Dante, dove troneggia una statua del divin poeta, piuttosto corrucciato, e un’altra sulle Arche scaligere, le tombe dei signori della città.
Mi sembra di incontrarlo, il poeta, mentre percorre le stesse vie che calpesto, lui che ha fatto di Verona la sua città elettiva a partire dal 1312, entrando al servizio di Cangrande, suo principale protettore, a cui ha dedicato la terza cantica del Paradiso.
Non disdegna, lui fiorentino, di rivolgermi la parola, a me dall’accento veneto, facendomi convinto della nobiltà del parlare volgare, come dice lui, cioè in italiano. Mi ricorda anche:
Sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale
ma, al tempo stesso, mi tesse l’elogio dell’ospitalità di quel Cangrande che mi descrive come un modello di guida politica illuminata e capace, che potrebbe permettere di aspirare alla pacificazione dell’Italia intera.
Mentre lo lascio continuare la sua strada (è la sera del 7 gennaio 1320, fredda e nevosa, e si sta recando nella chiesa di Sant’Elena a leggere ai canonici e agli uomini di cultura veronesi la sua celebre Questio de aqua et terra), mi sembra di intuire quanto l’esilio abbia allargato l’orizzonte di quel “ghibellin fuggiasco” che “di fiorentino lo fece cittadino d’Italia”.
Sì, l’esilio non è solo una condizione negativa, ma anche naturale della persona che la rende cittadina del mondo.